7.10.2019
Mediacritica
Erasmo De Meo
Nel mezzo della vita

Non tutte le note risuonano in una sala. Un ambiente, uno strumento e un corpo hanno ciascuno una propria risonanza: accordarle – come etimologia vuole – è giungere al cuore di ciascuna, flettere, anticipare o ritardare finemente fino a ottenere sincronia perfetta. Solo così una nota, un corpo e uno spazio non saranno tre presenze distinte, sciolte, ma saranno una nota che è corpo, un corpo che è spazio, uno spazio che è nota, in cerchio completo.

Nel giugno 2017, le prove di Mitten wir im Leben sind vengono filmate da Olivia Rochette e Gerard-Jan Claes. Il titolo, ripreso da un corale luterano che recita nei primi due versi «Nel mezzo della vita / siamo avvolti dalla Morte», lascia solo il primo verso che si può tradurre con “Siamo nel mezzo della vita”. Il titolo del film seziona ancora maggiormente e lascia solo la prima parola Mitten: “Nel mezzo”. Nel mezzo di cosa?

La musica di Bach, così nuda come lo è solo nelle Suites per violoncello, è un avamposto di fronte al disordine. La sua razionalità che tutto contiene – così precisa da calcolare il sentimento – è la stessa dell’ex-fabbrica, luogo prescelto per l’esibizione, che sta nel verde. Dagli alti finestroni entra tantissima luce, ma il vento e la pioggia si fermano quasi rispettosi oltre i vetri. Che la natura voglia guardare? Che voglia contemplare?

Anne Teresa de Keersnaeker e Jean-Guihen Queyras, la coreografa e il violoncellista, chiusi come in uno scrigno – come se un fuori non vi fosse – innalzano l’attenzione a vestigio e armati di sottilissimi dettagli cercano il peso esatto di ogni nota – e ogni nota è un passo. Non c’è nulla che li distragga, in loro l’essere umani tocca il culmine dell’intensità possibile: conoscenza e creazione, esperienza e apertura. “Il braccio non simmetrico”, “la gamba rilassata”, “il più lento possibile”, sono richiami di Anne Teresa che, colpi di scalpello, modellano quella che Jean-Guihen definisce “una trascrizione della partitura nel corpo”. E quanta consapevolezza mostrano i registi inquadrando Anne Teresa e non chi balla, gli occhi attenti, l’idea, e non la sua esecuzione: fuori campo c’è l’azione, ma l’importante, la radice – dicono Rochette e Claes – sta nel pensiero, nel farsi dell’idea.

È questo il mezzo, posto nel mezzo della vita – la fabbrica abbracciata da alberi e prati – che è avvolta da Morte – l’orario della rappresentazione è scelto al tramonto, così da terminare l’ultima suite nel buio assoluto, niente più danza e il violoncello quasi elegiaco che proietta la sua ombra su una parete, come fosse un ricordo. È tipico in Bach evitare le cadenze, protrarre la tensione, ritardare la risoluzione e sfuggire, quindi, alla stasi. Questo il film infine suggerisce: il pensiero come Vita o come palliativo sfuggente alla Morte, piena libertà ottenuta solo col pieno controllo.

Mediacritica